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PARLA ANDY

“LASCIO AMELIE…
MA A FARE LA MAMMA”
Murray è in forma. E difende le sue scelte

Questo contenuto è stato pubblicato 8 anni fa. Potrebbe essere riferito ad un’edizione passata degli Internazionali d’Italia.

Incontrando Andy Murray di persona, sono due le cose che ti colpiscono ogni volta. Lo sguardo, sempre intenso, che lascia intravedere quella che si può sostenere sia la mente più brillante del circuito. E, ancor prima, l’imponenza della sua figura: in TV, e nei luoghi comuni, viene spesso da identificarlo come lo smilzo del gruppo di testa. E’ una “misrepresentation”, una rappresentazione sbagliata, perché Andy ha il fisico dell’atleta del terzo millennio: alto, asciutto, spalle larghe e muscolatura distesa ed efficace. Non a caso è opinione abbastanza diffusa che, se si corressero i 400 metri tra i primi 50 giocatori del mondo, non ci sarebbe gara: Andy probabilmente darebbe un secondo pieno al primo inseguitore.

pop_murraydsc_5093Ma è la sua testa, la sua educazione, il suo spirito critico a rendere le sue conferenze stampa interessanti: “Beh, io penso che abbia funzionato eccome”, risponde secco al giornalista britannico che, seguendo una corrente tanto diffusa quanto banale, insinua che la sua collaborazione con Amelie Mauresmo sia stata un fallimento, addirittura destinato a diventare paradigma dannante per le speranze delle coach donne di allenare tennisti uomini. “Per due anni penso che i risultati siano stati buoni. Forse, a meno che io non vinca uno Slam, alla fine è così la gente giudica se è andata bene o male. Ma quando lei è arrivata nel team, stavo facendo veramente fatica. Non stavo andando bene. La mia fiducia (confidence, ndr) era bassa e stavo andando nella direzione sbagliata.” racconta Murray, con la sicurezza e la chiarezza di chi non ha niente da nascondere. “Poi lei è arrivata nel team, i miei risultati sono decollati. Voglio dire, per me, il tempo che abbiamo speso assieme è stato positivo. E’ solo un peccato che non sia riuscito a vincere uno slam, perché era quello che volevamo entrambi.”
E’ di domenica la sua finale con Djokovic a Madrid, che per quanto si sia conclusa con una sconfitta è stata in qualche modo uno statement: sei superiore, ma di poco, e io la testa non l’abbasso. E’ di lunedì la notizia della fine della collaborazione tra lui e Amelie, una donna eccezionale che da circa vent’anni vede messe in dubbio le sue qualità – umane, sportive, professionali – per il suo sesso, il suo essere gay, la sua corporatura (Martina Hingis ve la ricordate? “E’ un mezzo uomo”, disse nel 1999 alla vigilia della finale degli Australian Open, pochi giorni dopo il coming out di Amelie).
Due anni fa, quando Andy annunciò l’inizio della collaborazione, la notizia fu commentata quasi ovunque in modo ultra-critico. Proprio per questo, anche non avesse funzionato, la mossa di Murray sarebbe stata importante anche solo per come ha evidenziato i pregiudizi e il maschilismo latente che ancora permeano (permeavano? …speriamo) il mondo del tennis e dello sport. Da allora (giugno 2014) sono passate due mezze stagioni e una intera, durante le quali Murray ha: vinto sette titoli (tra cui i primi due su terra), conquistato la Coppa Davis, raggiunto due finali e due semifinali Slam, raggiunto per la prima volta la seconda posizione mondiale. Non c’è male, come fallimento. Eppure, la loro separazione, decisa in modo pacifico e reciproco (Amelie e la sua compagna hanno una famiglia adesso, e semplicemente lei non può e non vuole permettersi di passare 30 settimane l’anno lontana da casa), rischia di ricevere lo stesso trattamento, in un paradosso poco divertente.

Andy Murray (Foto Giampiero Sposito)

Andy Murray (Foto Giampiero Sposito)

Non c’è da sorprendersi se schiva qualsiasi domanda su cui possa astenersi dal commentare, visto il trattamento mediatico che ha sempre ricevuto: “No, non ce l’ho”, risponde quando gli viene chiesto se ha un’opinione sulla nuova elezione di un sindaco musulmano figlio d’immigrati pachistani, a Londra, la città dove ha base. L’impressione, dalla rapidità con cui risponde e chiude ogni spiraglio, è che l’opinione ce l’abbia eccome, ma preferisca tenersela per evitare qualche titolaccio virgolettato da tabloid.
Murray è arrivato a Roma con le migliori credenziali possibili, almeno per chi non ha nome Novak. Con le mirabili eccezioni del 2011 e del 2014, quando giocò due partite strabilianti contro Djokovic e Nadal, a Roma non si è mai trovato benissimo. Il suo bilancio vittorie/sconfitte è un mediocre 9-9 e il suo debutto contro uno tra Mikhail Kukushkin non è del tutto privo di insidie. Il sorteggio gli è comunque stato piuttosto favorevole, con Djokovic, Federer e Nadal dall’altra parte del tabellone. Se riuscisse ad entrare in confidenza con le condizioni di gioco degli Internazionali BNL d’Italia, ben diverse da quelle di Madrid dove ha giocato in modo strepitoso, potrebbe andare molto avanti. E, una volta eliminati un po’ di luoghi comuni su questo scozzese che ha il difetto di avere opinioni e di non amare l’attenzione superflua, quello che rimane è il suo tennis: talento puro, immenso.

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