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Le parole del tennis — i migliori racconti

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Questo contenuto è stato pubblicato 7 anni fa. Potrebbe essere riferito ad un’edizione passata degli Internazionali d’Italia.

Non aspettatevi di leggere un racconto su come Tizio ha giocato il punto decisivo per vincere il match o su come Caio ha disintegrato due racchette in appena venti minuti di gioco. No. Niente di tutto ciò. Ora vi racconto un episodio avvenuto durante uno dei miei quotidiani allenamenti, quando ancora giocavo a livello agonistico. Premetto che ho vent’anni e solo da qualche mese ho ripreso la racchetta in mano, con tanta gioia e tanta agitazione, dopo circa due anni e mezzo di stop per una serie ti motivi. A primo impatto potrà sembrare un racconto semplice, banale oltre che noioso e magari lo è, ma sento il bisogno di raccontarvelo nella speranza che qualcuno di voi, amante di questo sport, possa comprendere e capire. Ho deciso di tenerlo chiuso dentro ad un cassetto per tanto tempo, perché quando decidevo di raccontarlo a qualcuno sembrava fosse poco importante o non entusiasmante, perciò decisi che sarebbe stato meglio tenermelo per me e quei cinque compagni d’allenamento piuttosto che sentirmi dire “Uh bello…” oppure ricevere un sorriso appena accennato. La solita mattinata tra i banchi di scuola, le ore che non passano mai e l’euforia che non si stanca ad aspettare. Tre, due, uno: suona la campanella, zaino sulle spalle, e modalità maratona di New York attivata; sono le 14:15 e ho appena venti minuti per raggiungere la macchina, mangiare, arrivare al circolo, cambiare ed entrare in campo. Mi scuso con i miei poveri polpacci che per quei quattro o cinque minuti andranno in fiamme, ma almeno saranno già pronti per l’allenamento. Arrivo in macchina, dove c’è mio padre che mi aspetta, butto lo zaino e subito prendo il sacchetto con il pranzo. Tempo stimato per l’arrivo al circolo circa sette-otto minuti, ma non per mangiare altrimenti potrei sentirmi male. Appena arrivo perdo sempre altri due minuti per mangiare e bere due sorsi d’acqua. Prossima fermata spogliatoio per un cambio veloce, dove spesso incontro una delle mie compagne di allenamento Anastasia, soprannominata “Ana”. Borsone sulle spalle e pronte per entrare in campo, un campo che per me è diventata una seconda casa. In campo c’erano già Giorgia e Alberto, un paio d’anni più grandi di me. Due giri di corsa, stretching e subito al lavoro; Giorgia e Alberto con Paolo, l’allenatore più anziano, più saggio, ma anche il più rompiscatole, mentre io e Ana con Carlo, il più caciarone del circolo a cui piace sempre scherzare e che sa prendere la vita cosi come viene senza se e senza ma, un maestro disponibile e attento che ogni allievo abbia recepito i suggerimenti usando qualche parolaccia qua e là. A me ed Ana ci spetta il campo numero quattro, quello un po’ isolato dagli altri campi grazie ad una piccolissima palestra con diversi attrezzi che usiamo una volta a settimana con il nostro preparatore atletico. Era davvero una bella giornata di inizio primavera, si stava bene e c’era un bel sole. Carlo ci fa iniziare subito con un carrello di palline, metà di dritto e metà di rovescio e… si avete capito bene! Proprio il carrello che usate per andare a fare la spesa. La cosa bella del carrello è che nonostante ci siano palline un po’ sgonfie, quelle che hanno cambiato colore da giallo a marrone e quelle nuove, il “cesto” non finisce mai come non si finisce mai di raccogliere le palline; ed è proprio quando arriva il momento di raccogliere che ti rendi conto di quante palline possano entrare in un carrello, anche se, sinceramente, non ho mai pensato a quante ne possano entrare, ma posso dire che sono davvero tante. Finiti i due cesti inizia il vero e proprio allenamento. “Dai ragazze, oggi scambi con spostamenti continui, dritto e rovescio incrociato. Rimanete concentrate. Pronte?”. Io da una parte e Ana dall’altra e Carlo al lato della rete che da la palla; non era la prima volta, già avevamo affrontato diverse volte questo tipo di allenamento, ma senza ottenere grandi risultati da ritenerci soddisfatte del lavoro svolto. Ma ho percepito, immediatamente, la nostra voglia di dare il centro per cento e di dimostrare qualcosa in più, di diverso c’era il nostro atteggiamento, pronte a mostrare, soprattutto a noi stesse, quelle piccole cose che ancora non eravamo riuscite a raggiungere. Si sentiva nell’aria questa nostra volontà di dare il massimo e non solo per dimostrare al nostro allenatore i nostri miglioramenti e la voglia di impegnarsi, ma anche per far vedere qualcosa e rendere orgogliosi mio padre e quello di Ana che stranamente assistevano fuori dal campo all’allenamento, visto che di solito se ne stavamo al bar del circolo a chiacchierare. Iniziarono i primi scambi, niente di eccezionale, per prendere il giusto ritmo l’unica cosa da fare per me era quello di rimandare semplicemente la pallina dall’altra parte, senza troppa energia e potenza. Lo scambio era iniziato già da un bel po’, saranno stati all’incirca trecento scambi e io avevo accelerato, Ana invece era entrata subito in quinta. Ci stavamo davvero divertendo, anche se non lo davamo a vedere per rimanere concentrate sull’obiettivo e perché era un momento delicato, delicatissimo e me lo ricordo bene: raggiungemmo i 400 scambi. Sapete perché ricordo bene, ancora oggi, quel momento? Perché in quel momento dalla scuola di danza che si trova accanto ai campi parte a tutto volume la canzone “Single Ladies” di Beyoncè. Per carità bella la canzone, bello il ritornello che se ti entra in testa non te lo levi più. In quell’istante ho odiato quella canzone come nessun’altra cosa al mondo. Abbiamo continuato a giocare ovviamente, stavamo andando alla grande, mai giocato così bene, ce la stavamo mettendo davvero tutta. Carlo, come al suo solito, grido al cielo parole non molto belle, ma era anche giusto dato la situazione. Il bello è che da quanto mi ero spostata in quel circolo, cioè da quasi tre anni, la musica dai campi non si era mai sentita, nonostante la scuola stesse a due metri da noi; molto probabilmente le sale erano insonorizzate e le finestre non venivano aperte quasi mai, almeno quando c’ero io. Appena sentii la canzone ho pensato, dentro la mia testa, che da un momento all’altro lo scambio sarebbe finito. Fortunatamente gli è stato chiesto di chiudere la finestra e il problema era stato facilmente risolto. Nel frattempo, il numero degli scambi aumentava, 500, 600, 700, senza mai fermarci e sempre con quell’unica pallina. Il ritmo continuava ad essere costante, ma iniziava a farsi spazio la stanchezza e il bisogno di fermarsi per un minuto; la forza e l’energia che ancora riuscivo a mettere non provenivano dal corpo, ma dalla mente, perché arrivate a quel punto e con quella continuità solo la forza di volontà e la determinazione possono farti arrivare oltre ogni proprio confine. 800. Oramai avevamo capito entrambe che da li a poco ci saremmo fermate, non c’era più quell’intensità, non avevo più fiato, gli spostamenti non erano più tanto spostamenti, ma eravamo coscienti del nostro lavoro ed eravamo soddisfatte. L’ottocentosedicesimo scambio lo firma Ana, poi la morte del mio rovescio incrociato a rete. Già prima di colpire la pallina sapevo che non sarebbe passata dall’altra parte del campo; le mie gambe e le mie braccia chiedevano pietà, erano a pezzi, ma nonostante questo ero felice, tanto. Ci siamo guardate e ci siamo scambiare un lungo sorriso, un sorriso un po’ doloroso. Uno scambio di 816 colpi su terra rossa aveva reso quel giorno uno dei più belli e speciali di tutta la mia vita. Non dimenticherò mai, perché non avrò mai il coraggio di dimenticare quanto il mio cuore batteva di gioia e d’amore per questo sport in quel momento. Ero convinta che la volta seguente sarei rientrata in campo con uno spirito diverso, consapevole delle mie possibilità. Questa prova ha reso orgogliosa di me stessa e della mia compagna Anastasia, perché è anche grazie al suo impegno se tutto ciò è stato possibile. Avrò cura di tutte le emozioni che il tennis mi ha fatto provare durante quell’allenamento. Per Sempre.

Ilaria Rotolo

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