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Le parole del tennis — i migliori racconti

Notte Martino

Questo contenuto è stato pubblicato 7 anni fa. Potrebbe essere riferito ad un’edizione passata degli Internazionali d’Italia.

“Il campo rosso si è aperto davanti a me. Ho scaraventato l’avversario fuori dallo stadio grazie ad un attacco dal timing e direzione perfetti: secco, profondo, angolato. L’altro, il mio avversario, si è attaccato coi denti e con tutta la grinta che gli riconosco alla partita e ha ributtato la palla di qua. Una palla lentissima, per carità. Senza vita. Da fuori lo stadio, per carità. Ma l’ha rimessa di qua. Per vincere mi basta appoggiarla sul campo rimasto sgombro. Un colpo che posso fare anche dormendo; bevendo un caffè; di spalle o a testa in giù, col manico, col telaio o con qualsiasi altra appendice del mio corpo. E’ praticamente tutto fatto, finito. Ho vinto. Eppure non riesco a smettere di osservare con ogni molecola della mia ammirazione quell’individuo che per tutta a partita ha corso quattro volte me e durante il torneo almeno quaranta. Non posso smettere di guardare stupito i suoi occhi delusi, ma risolti, mentre trotterella verso la rete per stringere la mano al vincitore. Non riesco ad esultare, sono bloccato. Improvvisamente inchiodato da questo pensiero. Perché so che quando questo baraccone finirà, torneremo ad essere quello che eravamo e sempre siamo stati: null’altro che uomini. Ma non è questo il pensiero da fare adesso, non per me. In questo momento devo solo aggrapparmi alla gloria e ricordare chi sono. Ebbene, io sono Martino Notte e se gioco bene non ce n’è per nessuno. Dove sono cresciuto io il tennis era roba da ragazzine annoiate. I maschi, i veri machi, giocavano a calcio. Eppure don Andrea, il prete dell’oratorio dove si andava il sabato pomeriggio, era pazzo per la racchetta. Contrariamente ai suoi “colleghi”, aveva fatto mettere una rete alta un metro e qualcosa al centro del chiostro e, con buona pace dei ragazzi che arrivavano col pallone a scacchi sotto braccio, ogni sabato alle 14:30 indiceva un mini torneo di singolare tennistico. Io avevo 11 anni. Avevo già preso lezioni da un abbronzatissimo individuo durante il periodo di villeggiatura estiva, ma queste lezioni erano durate pochi gironi. E non perché il tennis non mi piacesse, semplicemente perché mi veniva troppo facile. Non avevo bisogno di un sorridente ragazzo di riviera che mi insegnasse l’impugnatura eastern o continental, la pronazione durante la battuta o l’inclinazione del polso. Queste cose le sapevo già e in modo del tutto naturale. Non avevo bisogno di un insegnante; io avevo bisogno di un amico. Il prete, quando mi vide prendere letteralmente a pallate i suoi seminaristi rimase sbalordito. Probabilmente pensava che in tanto talento ci fosse lo zampino di Dio, ma non osava dichiararlo. Io ad anni 11 lasciavo una misera manciata di punti ai suoi ragazzi di 25, 30 anni, alti robusti e, si presume, raccomandati da Qualcuno di molto potente. Questo mi valse l’attenzione fraterna di don Andrea che un bel giorno senza neanche consultare i miei genitori mi iscrisse al più importante torneo della città. Arrivai in finale con incredibile facilità. In quattro incontri persi 9 giochi. Giunto all’ultimo atto fui sconfitto da un ragazzino che quanto a tecnica ed estro valeva un quarto di me (ad essere generosi) ma che aveva una qualità a me ancora sconosciuta: la pazienza. Ero inconsolabile. Finché avrò vita, però, ricorderò le parole di Don Andrea dopo quell’atroce delusione: “Martino, tu hai un dono. Ed ogni volta che giochi è come se regalassi qualcosa a qualcuno. Quanto tocchi una pallina, quando la colpisci senza quasi farla rimbalzare o quando la lasci correre in meno di un lampo dal tuo campo alla linea di fondo dell’avversario, in tutti quei momenti stai facendo il regalo più bello a chi ti guarda: stai donando la felicità. Perché tu sei la loro idea, sei tutto quello che hanno dentro ma non riescono a dire e fare: sopra quel campo sei tutte quelle idee senza forma che finalmente prendono corpo. E questo li emoziona fino a farli piangere, li fa felici. Forse adesso è ancora presto, ma un giorno capirai. Questo però te lo dico in tutta la sua semplicità: Martino, non smettere mai di regalare felicità.” Ora ho 26 anni compiuti da poco e 8 anni di trionfi alle spalle. 1 oro olimpico, 2 coppe Davis vinte praticamente da solo, 46 tornei di singolare conquistati in totale, tra cui 14 prove dello Slam. E domenica, dopodomani alle 15, sotto il mezzo sole di Parigi, vado per il quindicesimo. E non c’è nessuno al mondo che possa rubarmi quel trofeo che significa record assoluto, gloria, immortalità. Lo dicono le classifiche, lo dicono gli esperti, lo dicono le enciclopedie del tennis e lo pensano gli scommettitori. Non c’è nessuno al mio livello. Nessuno a parte uno. Quello che incontrerò domenica pomeriggio”. A Santiago del Cile il 18 settembre è un delirio. Si celebrano le Fiestas Patrias e c’è gente ovunque tranne che in casa. Alle due del pomeriggio l’estate morde ancora come un mastino bavoso. Dicono che quest’anno alle Fiestas ci sarà anche Juanito, “el hijo de la naciòn” come lo chiamano da quelle parti. Juan Andrade Morientes, detto Juanito, è nato a Santiago del Cile il 18 settembre del 1995. Le Fiestas Patrias coincidono quindi col suo compleanno. Juanito ha quindi poco più di vent’anni. Quello che invece non si può dedurre, ma che pure tutti sanno, è che Juanito è un mostro della racchetta. E’ un mostro nel vero senso della parola. Lui non batte i suoi avversari, lui li divora, toglie loro l’anima e la voglia di giocare ancora. Juanito è un vero cannibale. Eppure, a conoscerlo, la sua umiltà e gentilezza ti lasciano interdetto. Sono l’umiltà e la gentilezza dei contadini. Della gente abituata a sudarsi il pane ogni sacro giorno. Juanito è infatti figlio di contadini. I sacrifici fatti da suoi genitori per fargli girare il Sudamerica racchetta in spalla sono la dimostrazione più potente e allo stesso tempo gentile di cosa si intende con l’espressione “amore per un figlio”. Ora i due poveri contadini sono diventati ricchi, ricchissimi. Con i milioni di pesos guadagnati in montepremi e con gli sponsor che fanno a gara per firmare quella pelle scura da indio e quei capelli nerissimi da figlio del sole, la famiglia Morientes è ora sia ammirata sia invidiata da moltitudini di persone. Ma Juanito resta affamato. Non esiste punto, partita o torneo in cui non parta tra i favoritissimi. Tutti dicono che sarà il prossimo numero uno. Tutti dicono che è già il nuovo sovrano del tennis e che tra poco il suo impero si estenderà a tutte le latitudini. Di Juan Andrade Morientes colpisce la rabbia, il ruggito ad ogni palla, la ribellione alla sconfitta. “El Monstruo”, “Huracan”, “El Perro Rabioso” sono solo alcuni dei soprannomi che i giornalisti hanno affibbiato a Juan. E i risultati danno ragione ai giornalisti, così come la classifica: Juan Andrade Morientes è il numero 2 della graduatoria mondiale, non perde un incontro da quasi 200 giorni e domenica si gioca l’assoluta sovranità del tennis. Una nazione, se non un continente intero, sono con lui. Parigi lo ha spesso fatto e domenica 8 giugno 2016 lo fa una volta di più: la capitale d’Europa ospita la storia nella finale del secondo slam dell’anno tra Juan Andrade Morientes e Martino Notte. “E’ davvero un mostro. Quel dritto lungolinea sparato dalla mia racchetta alla fine del quarto set avrebbe lasciato immobile chiunque altro. Ma non lui. Juanito, amico di tutti e nemico mio, compagno di storia., vorrei vederti nella polvere, tenerti la testa sotto la mia scarpa destra e riderti sopra. Ma allo stesso tempo vorrei essere te. Rabbia cilena, sventura, concentrazione avversa di eventi e rinascita; la tua racchetta che sempre spunta come una lama di luna quando tutto sembra finito. La tua palla, quella maledetta palla che sempre ritorna e trasforma la perfezione dei miei gesti in imperfezione. Come il calore che pian piano ammorbidisce l’acciaio più freddo e pesante, così sei tu per me. Forse tutto sta davvero per finire. Forse è l’alba di un nuovo regno. Forse la mia grandezza artistica dovrà svanire al cospetto del rumore dell’umanità che sembri portare tutta inter sulle tue spalle latine. E il mio genio? E la bellezza dei miei gesti? Cosa hanno fatto al mondo? Lo hanno reso un po’ migliore o non hanno cambiato nulla?. Non lo so. In fondo, c’è ancora un set da giocare. Primo gioco del quinto e ultimo parziale, tengo il servizio a 15 e siamo 1 a 0. Altrettanto fa lui e siamo 1 a 1. Al terzo gioco vado sotto 15-30, ma con 2 aces e un dritto del mio avversario fuori di un millimetro sono 2 a 1 sopra. E via così fino al 5 pari. Lì qualcosa si inceppa. I ruggiti di Juan si fanno ad ogni colpo più intensi. Sento il peso di tutta la sua gente sopra le mie braccia. Mi sento solo eppure nel profondo avverto un segno di giustizia nel mio essere sconfitto, spodestato. Sento che lui merita più di me. Come giocatore e come uomo. Sono sotto 0-40 ed è ormai quasi buio a Parigi. Sento l’odore delle cento rosticcerie del Boulevard D’Auteil arrivare direttamente dentro Lo Chatrier, così come le risa ed i brindisi dei dehors. Sento la mia vita che sta per finire nelle stesse sere in cui l’estate sta per scoppiare. Metto due aces a più di 200 chilometri orari. Sono i colpi della disperazione. Anche se non ogni disperato riesce a produrre lampi di quella potenza e precisione, mi dico, per tirarmi un po’ su. Il servizio sul 30-40 è ancora più forte dei precedenti ma lui lo prende e rimette la palla tra i miei piedi. Non saprei dire se col piatto corde, col manico o con quale altra parte del telaio, ma di mezzo volo la rimetto di là. Qui comincia uno scambio nel quale non ho neanche il tempo di respirare. Eppure tra un colpo e l’altro, dal precipizio sul quale mi trovo riesco a distinguere, confusi e soli in mezzo al pubblico estasiato, gli occhi fermi di un uomo. Quell’uomo è forse il solo a disinteressarsi della partita. Ma quell’uomo è probabilmente l’unico ad interessarsi davvero a me. Faccio in tempo a guardarlo per un altro istante, carico il colpo con tutta l’energia che mi resta nulle gambe e scaglio un dritto che esplode come un meteorite e mi regala il pareggio; l’oasi, il ritorno sulla terra ferma. Il 40 pari. Quell’uomo mi fissa con uno sguardo carico d’orgoglio e consapevolezza. Non vedevo Don Andrea da almeno 10 anni. In questi 10 anni non ho smesso un giorno d pensare a lui. Altri due colpi formidabili e sono 6-5. Un fascio di vita mi ha appena attraversato. Non mi ricordo neanche più chi sono. Non so cosa sto facendo qui, ma lo faccio nel modo in cui nessuno lo ha mai fatto prima e forse lo farà. Vago da una parte all’altra del campo come un’entità fatta di particelle celesti e da qualsiasi parte colpisco la palla in modo così perfetto che la racchetta stessa sembra ammutolita. Anche gli oggetti non hanno motivo di gridare se li si tratta come si deve. E questa liturgia continua nella sua mistica meraviglia sino all’ultimo punto. Sono 40 a 0. Ho a disposizione tre colpi per l’immortalità. E così, dopo l’ennesima saetta scagliata da un angolo impossibile verso un angolo impossibile, vedo il leone dall’altra parte del campo ributtarla di qua in qualche modo. Lo guardo, lo ammiro gli tributo silenzioso ed intimo il più fragoroso degli applausi prodotti in vita mia e con un gesto elementare butto la palla di là. Non importa che i titoli dello slam ora siano 15. Non importa che nella storia di questo sport sarà tracciata una linea per mezzo della quale tutti i tennisti saranno distinti tra quelli venuti prima di me e quelli venuti dopo. Non importa che il computer dica una volta di più: NUMERO 1. Importa invece che io sia riuscito a fermare il consueto domino dei fenomeni. Ad evitare l’inevitabile e tagliare il filo delle cose. A vincere quando io stesso pensavo che in fondo sarebbe stato giusto perdere. Ma io sono Martino Notte. E se gioco bene, non ce n’è per nessuno”.

Alberto M. Bellocchi

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