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Le parole del tennis — i migliori racconti

Killer point

Questo contenuto è stato pubblicato 6 anni fa. Potrebbe essere riferito ad un’edizione passata degli Internazionali d’Italia.

Un quindici alla volta. Tenere la testa su quell’unico punto e non pensare ad altro, come se non ci fossero vantaggi, nessuna occasione successiva. Ogni palla un killer point: dentro o fuori. Sentire solo il suono delle corde e la vibrazione che sale alla spalla, e poi il segno sulla terra rossa.

0 – 0

La tigre siberiana non è ancora al meglio, però pensava di avere la vita facile. Trovare al primo turno una semisconosciuta, arrivata qui solo grazie a una wild card. È partita tranquilla, anche se la sua faccia slavata non concede mai un segno. Nessuna empatia. Però pensava già al prossimo turno. E invece è qui sul centrale da due ore. Il sole di Roma a picco scioglie presto il ghiaccio sulle bibite degli spettatori e fa luccicare il metallo, creando giochi di luce sul campo e sugli spalti. Maria non sembra accorgersene, ma il sudore le riga le guance come in un pianto disperato. Potrebbe essere l’ultimo game, e lei non sa nulla di questa partita. Non sa che cosa ci stiamo giocando veramente, altrimenti quell’acqua sul suo viso avrebbe un altro sapore.

Tiro una prima potente. Rimbalza sulla rete. Respiro e palleggio con la mano una seconda palla che tirerò comunque forte. Al centro. Ace di seconda. Maria resta pietrificata a un metro dalla linea di fondo.

15 – 0

Mi hanno scelto per questa mia freddezza, qualità non comune per una giocatrice che si affaccia ora sui palcoscenici internazionali. Serviva una che separasse le cose. La partita dalla realtà. Con una rete nel mezzo e un nastro bianco messo lì come un dado, per decidere tra la vita e la morte. Gli uomini che vennero a prendermi erano vestiti di nero e avevano caschi col plexiglass scuro. Le moto facevano un rumore assordante, come se i decibel fossero un tatuaggio acustico per marcare il potere sulle persone e sulle cose. Stavo tornando dagli allenamenti e avevo il borsone con le Yonex. Ero contenta di come stavo giocando. Il dritto finalmente spingeva da fondo e riuscivo a scendere a rete con più facilità.

I lampioni di Tor Vergata erano quasi tutti rotti, ed è stato proprio nel buio dello slargo della strada che ho visto quei fanali puntati su di me. Mi sono parata gli occhi con la mano e mi è cascata la borsa. Poi mi sono ritrovata circondata da sagome scure.

Adesso devo colpire da sinistra. Alzo la palla con la destra e decido per uno slice a uscire. Sento il rumore della palla che colpisce la riga, fa un rimbalzo strano e sale. Maria intuisce e si allunga per prenderla. Il rovescio parte forte e supera il nastro di un niente. Respingo di rovescio, aiutandomi con la destra. La palla si impenna e tocca quasi la linea di fondo. La siberiana è piazzata bene e spara un dritto incrociato. Neanche lo vedo.

15 – 15

Sbatto il piatto-corde sui talloni, uno a uno, per togliere un po’ di terra rossa dalle suole. Guardo la folla intorno che si muove sempre più piano. Ora il livello acustico è al minimo e tutti gli occhi sono su di me. Impossibile capire da dove arriverà, e quando. Ogni cosa che luccica mi dà una fitta al petto, ma devo continuare la partita. Lo so fare. So essere glaciale. La mia spalla girerà veloce anche questa volta. Lo sguardo di Maria è un pugnale, ma non per me. Sto giocando una doppia partita e devo farlo fino in fondo.
Uno dei motociclisti si era avvicinato e si era tolto il casco, ma sotto aveva il volto coperto da un passamontagna nero. Gli occhi però, illuminati dai fari gialli di una moto, erano sottili e chiarissimi. La fisiognomica sotto il passamontagna era un naso stretto e una mascella quadrata. Non ha detto niente e mi ha passato il suo casco. Uno dei motociclisti aveva una grossa pistola che sbucava dalla tuta. Avevo capito che non potevo andarmene. Ho indossato il casco e sono salita dietro l’uomo dagli occhi chiari.
Stavolta me la alzo quasi dietro alla testa, curvo bene la schiena e colpisco. Sento il fischio e la palla che sparisce dietro la rete. Masha – anche così la chiamano – risponde profondo. Sono piazzata, sparo ancora un dritto a sventaglio, forte come se fosse l’ultima volta. Lei risponde in back, la palla rimbalza lenta e mi costringe a correre. Questa volta il dritto è fiacco, lei attacca e tira fuori uno di quei suoi urli che accende le fantasie degli spettatori maschi. Io però trovo un passante impossibile, che spolvera la riga di fondo.

30 – 15

Il principio attivo espande i vasi sanguigni e apre le porte dei tessuti. L’emoglobina carica l’ossigeno e lo porta in giro per il corpo più velocemente. Chi lo prende si sente un Dio, sul cemento o sulla terra. Almeno è quello che dicono.
Meldonium, o mildronato, è così che si chiama. È quello che inchiodò Masha a interminabili mesi di una squalifica che spezzò le gambe a lei e le speranze ai tifosi di mezzo pianeta. La numero uno al mondo fuori dai giochi. Niente Rio de Janeiro. Niente slam. Forse una carriera finita per sempre. Il fango dei media e lo sbigottimento di tutti. Adesso so la verità su quella storia, forse solo io e pochi altri al mondo. Ecco perché sono qui.

Mi hanno portata in un quartiere che non conoscevo. Mi hanno bendata, poi siamo entrati in un vecchio edificio. C’era puzza di muffa e carta marcia. Poi mi hanno tolto la benda e un uomo dietro una scrivania metallica mi ha parlato. Aveva un accento dell’est, e anche i lineamenti. Mi ha spiegato tutto. Avrei dovuto partecipare agli Internazionali di Roma, grazie a una wild card che mi avrebbero procurato loro. Niente qualificazioni; partecipazione diretta. Avrei incontrato lei al primo turno. Il rifiuto sarebbe stato impossibile.

Ancora uno slice da sinistra, ben tagliato. Lei lo intuisce ancora e respinge forte. Resto a fondo campo e cerco di allungare. Anche lei non spinge al massimo, è una partita a scacchi, ci si muove sulle diagonali e in verticale. Adesso indietreggio e tiro un dritto sul corridoio. Sugli spalti un coro di delusione. Meglio così. Devo avere più tempo per pensare.

30 – 30

Fingo una rottura delle corde, alzo la mano verso il giudice di sedia e mi avvio verso la mia panchina. Cambio la racchetta e intanto guardo le tribune. Non vedo nessun movimento strano, l’uomo deve essere ben nascosto tra la folla.

La questione era questa, un gioco di scommesse al nero, roba grossa, a livello internazionale. Masha avrebbe dovuto perdere una finale in cui era favorita. Si era rifiutata e aveva fatto perdere una somma astronomica a qualcuno di molto potente. Per questo l’avevano incastrata col Meldonium. Ma questo era solo il primo passo. La tigre non aveva mollato ed era rientrata nel giro, anche se ormai il numero 1 l’aveva perso. Dietro questa partita c’è l’epilogo della storia, però questa volta a scriverlo dovrò essere io.

Torno al mio posto. L’applauso del foro italico. Due punti dal match, sono l’inattesa nuova speranza per il tennis femminile italiano.

Il servizio è buono, sull’incrocio del riquadro a T. La palla spolvera la riga. Maria risponde forte, a due mani. Deve perdere ma non lo sa, e tira fuori la grinta della tigre bianca. Colpisco con un dritto in top, alla massima rotazione. La palla s’impenna e cade a un niente dalla linea di fondo. Ancora scambi tirati, nessuna vuole cedere. Adesso mi si annebbia la vista, la palla si sdoppia, scompare e riappare come una particella elementare. La colpisco quasi a caso, perdo l’equilibrio e stecco. Il rumore sul telaio di grafite quasi fende l’aria. Panico tra la folla. Però la palla prende un giro strano, rotola sul nastro e poi decide di cadere dall’altra parte della rete.

40 – 30

Il patto era questo. Avrei dovuto batterla, e questo già era quasi impossibile. Ma non era tutto: dovevo farlo in due set e senza mai andare ai vantaggi. La scommessa si chiamava “killer point”. Dentro o fuori. Se tutto questo non fosse accaduto, Maria avrebbe preso un proiettile in fronte, in diretta mondiale.

Quindi adesso ci giochiamo l’ultimo punto. O metto dentro questa maledetta palla o andiamo in parità. E questo non deve succedere.

Ecco che mi trema la mano. Il punto finale è la condanna del tennista. Mi rivedo a quattordici anni, alla finale del campionato regionale. Mi giocavo tutto con un servizio finale e finii per tirare la prima e la seconda a rete. Smisi di giocare per un anno, ma poi la vita va avanti, e anche il tennis. Dovetti lavorare molto di testa, fino a diventare quella che sono ora.

Alzo la palla, spingo forte. Fuori di un metro. Maria alza il pugno. Non sa che cosa sta succedendo. Il raccattapalle mi passa l’asciugamano. Torno al mio posto in fondo al campo. Spingo una seconda più morbida. Maria respinge in back, molto teso. Con un braccio di legno riesco a tirare un dritto profondo, lei arretra e picchia a due mani. Sono in ritardo. Scivolo sulla terra e alzo un pallonetto. Il tempo si ferma. La palla disegna una parabola larga, scende lentamente e poi cade. Il segno sembra fuori, ma forse ha toccato la linea. Il giudice di linea allarga il braccio e l’arbitro sta per assegnare il punto. Maria esulta ma ora vedo il puntatore rosso sulla sua fronte.

Devo inventarmi qualcosa. Alzo la mano e chiedo la verifica. Ho ancora da giocarmi un challenge, anche se sono quasi sicura che la palla sia fuori. Il giudice scende dalla scala ed è a quel punto che lancio la racchetta a terra e corro dalla parte opposta. L’uomo è indeciso ma sta per confermare l’out. Vado incontro alla mia avversaria e le do una spinta forte, fino a farla cadere. Si crea una folla intorno a noi, e sulle tribune sembra una corrida. La prima pallottola mi entra sotto la spalla, la seconda dietro la coscia sinistra. Urlo e mi si annebbia la vista. Sento braccia forti portarmi via, verso gli spogliatoi. Maria ha il sangue che le cola dal naso e mi guarda come un animale ferito. Non sa che le ho salvato la vita.

Ed io non saprò mai se oggi ho battuto davvero la tigre siberiana.

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