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NADAL-DJOKOVIC, FINALE DA LEGGENDA
Sfida numero 54 nella rivalità che segna un’epoca

Questo contenuto è stato pubblicato 5 anni fa. Potrebbe essere riferito ad un’edizione passata degli Internazionali d’Italia.

Sono due buoni compagni di viaggio, Rafa Nadal e Novak Djokovic. E due buoni compagni di viaggio, canta Francsco de Gregori, non dovrebbero lasciarsi mai. Da tredici anni si inseguono, si vorrebbero evitare, ma si trovano e si ritrovano. Nessuna coppia di avversari si è mai affrontata più volte di loro due nell’era Open. Sarà la sfida numero 54: il serbo è in vantaggio 28-25, ha vinto 21 delle ultime 30 partite dal 2011. Per numeri simili bisogna tornare ai massacranti tour dei professionisti degli anni Trenta, due giocatori sempre in campo, praticamente ogni sera in un posto diverso, grandi città o fiera di paese cambia poco.

“Da suo ammiratore, sono contento che sia tornato in finale” ha detto Djokovic in conferenza stampa dopo la vittoria su Schwartzman, “da avversario molto meno”. Giocare contro Rafa, ha aggiunto, “è la sfida più dura”. Qui si fa la storia, da qui divergono le grandi destinazioni.

A dieci anni dal primo incontro a Roma, nella finale del 2009, al 54mo capitolo di una rivalità iconica che segna un’epoca del gioco, resta forse poco da scoprire dei due. Eppure non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume, e non esistono due partite che siano davvero uguali. Nemmeno quando dell’avversario si conosce praticamente tutto.

La storia inizia con un ritiro, si ferma Djokovic nei quarti del Roland Garros 2006, e Nadal allunga a 58 la serie di vittorie di fila sul rosso. Salvo tre sfide nel round robin delle ATP Finals e un singolare di Coppa Davis (primo turno 2009), prima dei quarti di finale in un torneo non hanno mai giocato. Diventa epica nel 2009, a Madrid. Dall’inizio del suo dominio sul rosso, nessuno era mai andato così vicino come Djokovic a batterlo alla Caja Magica. Nessuno aveva mai dovuto giocare così tanto, quattro ore e due minuti, per vincere un match al meglio dei tre set. Dal duello, una delle più iconiche dimostrazioni delle affinità tra pugilato e tennis, contatto fisico escluso, emerge lo spagnolo che rimonta un set e salva tre match point.

Allora l’Europa discuteva di libertà di internet e di crisi delle banche, di recessione e Pil in calo, di politica estera americana e di esportazione della democrazia. Non si può dire che sia cambiato poi molto. Sono cambiati loro, però. Allora Djokovic era più acerbo, certo lontano dal RoboNole che in due anni avrebbe completato la stagione più dominante della storia del gioco. Resse per un set ai ritmi di un Nadal che in campo portava l’incontrastabile pesantezza di un dritto a uncino carico, profondo, alto, difficile da anticipare, ancor più pericoloso da aspettare. Un colpo che era una trappola per chi lo subiva, un valore aggiunto rivoluzionario per quel Rafa che già da tempo stava facendo dimenticare di essere “nipote di…”. Il cambio di paradigma familiare resterà per certi versi epocale: ormai è Miguel Angel Nadal, bandiera del Barcellona, ad essere famoso come zio del più grande tennista sul rosso di sempre.

Gli anni in più non sono uno scherzo, possono renderti diverso. Possono confondere l’immagine nello specchio della memoria. Nelle immagini di quel 2009 le sagome di Djokovic e Nadal tralucono dai video, dalle foto un po’ sbiadite, dai contorni incerti di un ricordo. Si allontana la memoria, resta il principio di una storia.

Quelle sagome, oggi, si incontrano ancora. Si specchiano nell’esperienza, nello sforzo che segna gli sguardi, che appesantisce i volti, che riduce le chiome ma non la voglia di vivere e morire per ogni centimetro in più da conquistare o da difendere. Icone di resilienza e resistenza, capaci di suonare la stessa musica per più di quattro ore a Madrid nel 2009, nella partita più lunga mai giocata sulla distanza dei due set su tre, Djokovic e Nadal oggi tracciano altri percorsi.

Disegnano una visione di maggiore brevità: un’anomalia forse, un dovere di sicuro. Perché nessuna stagione trascorre senza lasciare tracce. Novak Djokovic, il bambino che voleva diventare il numero 1 del mondo e che a quel sogno ha devoluto sangue e sudore, non è più il manifesto dell’elasticità. Non è nemmeno RoboNole, la macchina alimentata da uno spirito competitivo feroce, da una fame che non conosce sazietà. È un giocatore diverso, è il presidente del Players’ Council, è un padre per cui la parola futuro ha assunto connotazioni anche inattese.

Rafa Nadal, alla cinquantesima finale in un Masters 1000, non ha ancora vinto un torneo sul rosso quest’anno. Il re, il miglior interprete del tennis su terra battuta di sempre, è nudo. “E’ forte ma non imbattibile” ha detto Tsitsipas appena battuto dal maiorchino. Una considerazione senza boria, una fotografia dell’esistente. La sola presenza dello spagnolo sul rosso non basta più a scatenare soggezione.

Nadal per molti, e per tanti anni, ha rappresentato il tennis come “mistura di ordine statistico e potenziale espansivo che venera(no) i tecnici del gioco”, definizione che David Foster Wallace ha dato di una macro-categoria di tennisti risultatisti in quel divertimento infinito che è Infinite Jest. Quella parte rimane, certo, si traduce nel dominio degli scambi brevi, nei tre 6-0 in tre partite di fila al Foro Italico (contro Jeremy Chardy, Nikoloz Basilashvili e Fernando Verdasco), traguardo senza precedenti negli oltre mille match giocati in carriera. Ma si incrocia, si smeriglia, si trasforma con un fisiologico bisogno di brevità nella conduzione dei punti e una maggiore decisione nella presa del campo.

Le sfide contro Djokovic, però, non hanno il senso della perfetta opposizione contro un esemplare di quel tennis, sempre per restare alla definizione di Foster Wallace, come “non-ordine, limite, i punti in cui le cose vanno in pezzi e si frammentano nella bellezza pura”. Djokovic è una diversa declinazione dell’efficienza, il perfezionamento dell’idea del talento come capacità di risolvere compiti complessi attraverso doti fisiche, tecniche, tattiche fuori dal comune.

Negli anni migliori della rivalità, hanno rappresentato punti di equilibrio alternativi tra ragione e sentimento, tra ambizione e passione. Roma ha amato Rafa, ha rispettato Djokovic. Nelle ultime partite contro Juan Martin Del Potro e Diego Schwartzman, il numero 1 del mondo ha incassato un tifo contro che ha ricordato l’antipatia del viscerale pubblico del Foro per Ivan Lendl fischiato, guarda caso contro un altro argentino, Guillermo Perez Roldan, nella finale del 1988. Minacciò di non tornare Lendl. Djokovic si è limitato ad esultare con le mani sulle orecchie dopo aver vinto il punto del match e probabilmente del torneo con una controsmorzata di dritto preludio al break decisivo nel quinto game. Ha esultato come Marco Delvecchio nel vicino Olimpico quando i tifosi della Roma lo fischiavano perché delusi da quell’acquisto così apparentemente poco altisonante. Il tempo sarà galantuomo col futuro SuperMario.

Il tempo li riporta uno contro l’altro, a un anno dalla semifinale degli Internazionali BNL d’Italia 2018 che fu il segnale della riscossa di Djokovic, numero 22 a inizio anno e numero 1 a fine stagione. Il tempo e la storia, ancora sul Centrale, come nel 2009, come nel 2018. E la leggenda diventa emozione.

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