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ANDY E LA FOTO DELLA PICCOLA SOPHIA:“ORA GIOCO PER LEI”
La statura di Murray, campione umano

Questo contenuto è stato pubblicato 8 anni fa. Potrebbe essere riferito ad un’edizione passata degli Internazionali d’Italia.

Andy Murray campione degli Internazionali BNL d’Italia. Se oggi non vi sembra una sorpresa così gigantesca, è merito suo. Di un campione dallo spessore – sportivo, umano – difficilmente comprensibile. Incommensurabile, verrebbe da dire, non fosse un parolone che lui stesso rifiuterebbe. Questo tizio cui non è mai stato perdonato nulla, dal suo essere scozzese alla sua parlata monotòna, si è caricato sulle spalle l’eredità sportiva di un Paese tennisticamente – possiamo dirlo? – allo sbando. Ha preso il recente passato della Gran Bretagna come un figlio che si accolla i debiti di un padre in bancarotta. Non era una sua responsabilità ma, anche se è stata fatta passare come tale, lui l’ha fatto senza fiatare. Ebbene, dopo undici anni di carriera da professionista, questo tizio ha riportato i britannici ai fasti degli anni ’30, quando oltre a vantarsi di aver inventato questo sport potevano effettivamente sostenere di saperci giocare bene. Coppa Davis (1936), Wimbledon (1936), US Open (1936), Internazionali d’Italia (1931): è tutta roba che la Gran Bretagna maschile, negli ultimi 80 anni o giù di lì, vinceva solo nei suoi sogni più sfrenati. Poi è arrivato Andy, e li ha vinti tutti.

Andy Murray (Foto Antonio Costantini)

Andy Murray (Foto Antonio Costantini)

Lo ha fatto facendo le cose a suo modo, infischiandosene di tutto e tutti, in particolare dei giornalisti suoi connazionali che per un buon periodo sembravano fare a gara a chi riusciva a trovare la lettura più scomoda ai suoi comportamenti. Che, vale la pena ricordarlo, non sono mai uscito dallo spettro della normalità, se non in positivo. “Sì, la parte storica è bella. Ma per me, più importante è guardare ai giocatori che hanno vinto questo torneo” dice Andy a chi glielo ricorda, con la consueta umiltà. “Alcuni dei più forti giocatori di tutti i tempi hanno vinto qui. Ci sono stati pochissimi anni in cui il vincitore è stato una sorpresa. Quindi sono molto orgoglioso di avere il mio nome sul trofeo”.

Questa settimana era iniziata, tanto per cambiare, con qualche polemica. La sua separazione da Amelie Mauresmo, anche questa normalissima per chiunque avesse avuto la voglia di capire, gli è stata in qualche modo rivoltata contro come era stato criticato per averla scelta come coach. Una scelta, dare fiducia a una donna come coach di un uomo, che l’aveva reso improvvisamente un pazzo, o un cretino. Che ingenui. Non ci vuole molto a capire che, dietro a questo trionfo, c’è anche la mano di Maga Ameliè.

Anche grazie a lei, questo ragazzo ora è una potenza di caratura mondiale su tutte le superfici. E alla fine di questa settimana, che l’ha portato al suo 29esimo compleanno, il regalo l’ha fatto lui a noi. Mostrandoci come si fa: a vincere e anche, un pochino, a stare al mondo.

Nel 2005, l’abbiamo conosciuto come ragazzino alto ed esile, buttato sul Centre Court in pasto a David Nalbandian come un sacrificabile gladiatore al Colosseo. Ne uscì sconfitto ma mostrò al mondo il braccio d’oro che, negli anni successivi, sarebbe stato a tratti nascosto da uno stile di gioco remissivo, un po’ timoroso, ma reso possibile dalle sue doti difensive seconde a nessuno. Oggi il suo tennis è un mix splendido, che ruota attorno al suo rovescio semplicemente sublime: non c’è colpo bimane più elegante sul circuito maschile. E l’aggiunta di una seconda in slice, finalmente più veloce della seconda in kick che è sempre stata il suo tallone d’Achille, potrebbe vincergli un altro paio di Slam.

E questo torneo segna il suo primo trionfo da padre: “Sono molto, molto ottimista. Penso che avrà un effetto positivo sul mio tennis e sul resto della mia carriera. Mi dà un po’ di motivazione in più, qualcosa in più per cui giocare.” E nel suo essere razionale, e in generale abbastanza abbottonato con la stampa per tutte le sberle prese in passato, un dettaglio – che tale non è – se l’è fatto sfuggire: “L’ultima cosa che ho guardato prima di scendere in campo quest’oggi è stata una foto di mia figlia. Quindi sì, sento che questo è ciò per cui sto giocando ora, perché tra qualche anno, speriamo, possa essere orgogliosa di quello che ho fatto”.

Se un campione e una persona di questo tipo non è un idolo e un esempio del mondo intero, il problema è del mondo. Non suo.

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