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Le parole del tennis — i migliori racconti

Tra tennis e realtà

Questo contenuto è stato pubblicato 7 anni fa. Potrebbe essere riferito ad un’edizione passata degli Internazionali d’Italia.

L’asfalto del parcheggio luccica sotto un velo di pioggia viscida. L’equinozio di primavera è vicino, ma l’inverno sembra non volergli cedere il passo, come se febbraio non si fosse ancora stancato di stare appeso al calendario.

Sto aspettando in piedi da dieci minuti, le braccia conserte per non sentire il freddo, il giaccone invernale chiuso fino al collo ed il borsone da tennis in spalla.

I miei pensieri sono assorti a fissare le pozzanghere che vibrano e si increspano sotto le frustate del vento gelido.

No, in questo pomeriggio di fine carnevale la primavera è ancora decisamente lontana…come lontano è di certo anche il mio amico Zeno, “Zen” per gli amici, con il quale avevo appuntamento alle 18.30. Sono passati quasi dieci minuti oltre l’orario concordato, ma nel parcheggio deserto ci sono solo io.

Zen è soprannominato così per la sua abituale noncuranza con cui si presenta in ritardo agli appuntamenti. La puntualità per lui non esiste: l’unica sua coerenza è arrivare sempre, “puntualmente”, fuori tempo massimo. Se non fosse che è un amico di quelli con la “A” maiuscola, ed un ottimo giocatore di tennis, probabilmente lo avrei già mandato a quel paese.

D’altra parte, solo una forte passione per questo sport può convincere due persone ad uscire di casa sotto la pioggia ed il vento, per recarsi a giocare in un campo di provincia un po’ malconcio, ma almeno coperto da una struttura riscaldata e solida (in gergo tecnico, pressostruttura). Il problema è che l’umidità filtra lo stesso e forma delle pozze di acqua. Se stai giocando con dieci palline, puoi essere certo che tutte e dieci rotoleranno proprio là dentro e si inzupperanno.

Comunque eccomi qui, dopo una giornata di lavoro, ad aspettare il solito ritardatario. É praticamente quasi ora di cena quando Zen si presenta, interrompendo i miei pensieri ineluttabilmente negativi.

Parcheggia accanto alla cancellata, sistema con calma alcune cose in auto, poi scende e mi saluta con una delle sue frasi ironiche, senza nemmeno scusarsi per l’orario:

“Ciao Andrea, niente gonnellino oggi con questo caldo?”

Inorridisco, e non perché io non metta abitini da tennis, ma perché mi fa tremare la sola idea di indossarne uno in questo contesto invernale.

Qualcosa non vi torna? É forse venuto il momento di presentarmi: mi chiamo Andrea, ho 35 anni e sì, sono una donna. I miei hanno scelto questo nome perché secondo loro aveva un suono musicale e armonioso… purtroppo non avevano ancora scoperto che stona parecchio con il mio carattere spigoloso e ruvido.

Oggi, poi, sono infuriata con il mondo intero e sfogherò in campo tutta la mia rabbia per le cose andate storte: l’auto bocciata da un idiota l’altro giorno, il ritardo di Zen, il freddo, il ferro da stiro che si è rotto, il mio idolo di MasterChef squalificato… e tutto quanto mi salta in mente! Oggi non mi va bene niente ed ho deciso che i problemi li ho tutti e solo io.

I primi minuti di palleggio scorrono veloci. Qualche scambio al centro, poi una serie di diagonali, ed infine qualche servizio di prova. Sono impaziente di iniziare il set, come se in questa ora dovessi liberare tutta la frustrazione di un periodo nefasto.

Entrare nel campo coperto dal telone bianco e senza finestre è come entrare in una bolla d’aria che ti isola dal mondo esterno, un luogo in cui non è permesso alla vita quotidiana di accedere. Mi piace immaginare che la doppia porta del tunnel di ingresso al “pallone” sia in realtà un’anticamera in cui deporre i problemi, le preoccupazioni, i pensieri negativi. Se vuoi giocare bene devi lasciarli lì e portare con te solo la racchetta ed il tuo miglior tennis, altrimenti passerai una pessima ora e manderai tutte le palle in rete. Non è facile compiere questo sforzo di immaginazione, e vi lascio indovinare a chi dei due riesca meglio, tra me e Zen. Infatti, durante il riscaldamento intuisco che i miei pensieri negativi vorrebbero strisciare sotto la porta ed entrare in campo con me. Per ora cerco di non preoccuparmene.

Iniziamo la partita ed il primo set si sta già mettendo male. In breve tempo sono sotto di tre game. Non è un fatto nuovo. Cerco di autoconvincermi che ho solo bisogno di tempo per trovare la necessaria concentrazione, ma intanto un brivido di nervosismo mi avverte che questo punteggio non va bene e devo uscire dalla situazione. Mi sforzo di non perdere la calma e cerco di sfruttare i punti deboli del mio avversario.

Mentre sono divorata dai miei stessi ragionamenti, dall’altra parte del campo Zen sembra tranquillo e rilassato come al solito. Ha dalla sua parte venti centimetri di statura in più di me, che fanno la differenza. Possiede anche una buona tecnica di gioco e quasi sempre riesce a mandare la palla dove vuole. Il suo rovescio ad una mano è migliorabile, ma potente e piuttosto preciso, vagamente ”alla Roger”. Inoltre, cosa che io gli invidio da morire, non ha paura di giocare a rete: quando è lì davanti non si fa prendere dal panico e sa sempre cosa deve fare… direi che ha una volèe quasi “zen”.

Il punto debole del mio amico è che non regge gli scambi prolungati, e da perfezionista quale è detesta arrivare in modo scomposto sulla palla. Se riesco a farlo correre sul campo a destra e sinistra come un tergicristallo, prima o poi sbaglierà ed il punto sarà mio.

Mi aggrappo a questa strategia e con essa porto a casa ben tre game di fila. Il mio avversario sarà anche un asceta del tennis, ma io ho cinque anni di meno e fiato da vendere, e alla fine da 3-0 recupero a 3-3. Ora il mio nervosismo sembra essersi placato, mi rilasso e sono sicura che la partita cambierà rotta.

Eccolo qua, invece, il peggiore errore di tutta la storia del tennis di provincia: mai abbassare la guardia sulla parità di punteggio.

Mi illudo di poter fare il sorpasso del 4-3, ma in realtà vincere quei tre game filati mi è costato un occhio nella testa, in termini di energie mentali. Improvvisamente mi sento abbandonata dal mio “spirito guida” e tutti i pensieri più inutili sfondano la porta di ingresso del campo e si stampano prepotentemente nella mia mente: l’auto bocciata, il tempo perso aspettando Zen, chissà cosa c’è in frigo per cena, ho lasciato il dentifricio aperto… aiuto, un grumo di pensieri superflui si è riversato nella mia testa! La concentrazione è relegata in un angolo, umiliata ed offesa, ed io sto per giocare il mio peggior tennis di sempre.

Zeno adesso ha vita facile. Il suo servizio preciso scaglia la palla sempre sul mio rovescio mancino e le mie risposte vanno tutte a rete. Tento un debole recupero, ma Zen sancisce senza problemi il suo 4-3.

Da qui in poi penso solo agli errori commessi. La frustrazione prevale e ad ogni colpo sbagliato affiorano imprecazioni impronunciabili, prima a mezza bocca, poi senza ritegno. Sembra che la vera anima di Andrea se ne sia andata dal campo, lasciando il posto a mille diavoletti dispettosi che ballano la macarena.

Zen percepisce il momento negativo e sono convinta che ne sia dispiaciuto, ma continua a fare il suo gioco, come è giusto che sia. Una partita è un duello, e nei duelli non si fanno sconti.

Commetto falli e doppi falli come se piovesse. Non riesco a schiodarmi da quel terzo game.

5-3 per lui

6-3 per lui.

Fine primo set.

Ci avviciniamo a bordo campo ed io non proferisco parola. Se fossi un cartone animato si vedrebbe del fumo uscire dalle orecchie. Sono delusa. Zen vorrebbe dirmi qualcosa, ma non gliene lascio il tempo. Devo recuperare il controllo, così faccio quello che ho visto fare in tv dai professionisti: mi seggo sulla panchina, prendo l’asciugamano e me lo calo sul viso. Non voglio sentire e vedere niente per qualche secondo, ho bisogno di isolare i sensi per ritrovare un po’ di calma… ma accidenti qua sotto si muore di caldo!

Rinuncio quindi a scimmiottare i grandi del tennis e mi tolgo quell’affare dalla faccia. La prima cosa che vedo è Zen, seduto per terra di fronte a me, che mi guarda.

“Che c’è?”, gli chiedo seccata.

“C’è che non ti stai divertendo e si vede”

“Come faccio a divertirmi se sbaglio tutto? Sono completamente fuori giri. Gioco da schifo e non riesco a fare altro che imprecare! Come cavolo fai tu ad essere sempre così calmo? Sai sempre dove mandare la palla ed anche quando sbagli o perdi un punto non mostri segni di squilibrio psichico. Io invece sembro una pazza! Questa cosa mi fa tremendamente arrabbiare!”

Ok… non ho detto esattamente “arrabbiare”, ma non posso scrivere proprio tutto!

Zen si fa serio e inclina lievemente la testa da un lato.

“Forse un po’ matta lo sei davvero”, suggerisce.

“Oh beh grazie mille, amico!”.

“Ti prendi troppo sul serio. Divertimento e autocritica hanno confini ben precisi. Vanno dosati sapientemente. Troppa autocritica distrugge il divertimento, e così non è più tennis”.

Poi aggiunge: “Secondo me dovresti giocare più ‘zen’ “.

Non sono sicura di aver capito bene cosa intende dire il mio amico. A volte è un po’ ermetico nei suoi “assiomi”, comunque la pausa è terminata e così iniziamo il secondo set.

Il rientro in campo ha un sapore nuovo ed inaspettato. Sarà perché mi sono seduta a bere, o perché la frase detta da Zen sta lavorando nelle retrovie della mia coscienza, fatto sta che il mio tennis inizia a migliorare.

Decido per il momento di mantenere un gioco prudente da fondocampo, ma il mio braccio è ancora impacciato e fa quello che in gergo molto poco tecnico chiamiamo “tirare un campanile”, ovvero una palla indiscutibilmente fuori campo.

Questa volta, però, decido di non arrabbiarmi.

Ritrovo fiducia dopo un impeccabile dritto lungolinea (colpo che di solito sbaglio), e la rinnovata autostima fa il resto. I diavoletti hanno smesso di ballare la macarena nel mio cervello ed i pensieri sono tornati al loro posto, quelli utili dentro, gli altri tutti fuori.

Ho una nuova grinta da veicolare nel gioco, e non in imprecazioni inutili.

Questo cambiamento mi stupisce… eppure nella borraccia c’era solo un integratore di magnesio e potassio!

Ora il gioco non è più a senso unico. Entrambi mostriamo una tattica consapevole. La palla risuona piena sul mio piatto corde, sento la tensione nel preparare il colpo, ma sono attenta a ciò che devo fare, le gambe pronte a proiettare il peso in avanti, il braccio che finalmente si slega e dirige racchetta e pallina come un maestro dirige la sua orchestra.

Questo set sembra parte di un altro giorno e di un altro luogo.

In una parola, adesso mi sto divertendo!

Tutto questo si riflette nel punteggio, che è bilanciato e senza più distanze smisurate. Vinciamo un game a testa perché nessuno dei due vuole mollare l’osso, e di questo passo arriviamo a 5-5.

Giocare sottorete non è il mio forte. Quando arrivo là davanti mi assale la paura di sbagliare e le volée si incagliano a rete. Il mio amico lo sa e decide di creare una situazione a lui favorevole, così mi provoca con una serie di palle corte. Le gambe non mi tradiscono, corro e ci arrivo, ma lui concretizza quasi sempre il punto con un passante inafferrabile.

Poi, il colpo che non ti aspetti: un ace al centro. Accidenti!

6-5 per lui. Bravo.

Non avvilirti Andrea.

Il game successivo è molto combattuto. Faccio appello a tutte le mie forze per “restare sul pezzo”, e ci riesco. Ci giochiamo i punti sul filo dei vantaggi. Questa volta la strategia la decido io. Vedo solo tre cose, racchetta, pallina e avversario. Tutto il resto non esiste. Mangio centimetri di campo e quasi senza accorgermi mi ritrovo addirittura a fare una bella volée. Dopo uno scambio lungo come la coda alla posta, finalmente Zen tira un dritto maldestro ed io mi porto a casa il punto.

Siamo pari 6-6 e si andrà al tie-break.

Il game si è concluso, ma io resto immobile come una tonta in mezzo al campo, il fiato corto, il sudore addosso. La mente torna alla realtà e mi rendo conto di quello che ho fatto. Sì Andrea, questo è il tennis che voglio giocare, questo è il tennis che voglio per me stessa! Il set non è ancora finito ma io ho già vinto la mia più grande partita: far si che la tecnica, imparata in mesi di lezioni, venga guidata da una mente che non si lascia devastare dalle emozioni. Questo era il passo che mi mancava. Oggi finalmente corpo e anima hanno giocato insieme e non uno contro l’altra. Non mi era mai accaduto prima di riuscire a ribaltare una situazione che sembrava perduta, dominando rabbia, sconforto e “pensieri omicidi”. Ho sempre avuto la sensazione di avere due avversari in campo: quello

dall’altra parte della rete, e quello dentro di me, fatto di paure, incertezze e pessimismo. Oggi non è andata così, almeno in questo secondo set.

Ora può accadere di tutto. Non importa chi vincerà il tie-break, non importa che dovremo interrompere la partita perché fra poco arriveranno altri giocatori.

Non siamo in un torneo del Grande Slam ed in palio non c’è una macchina nuova… anche se mi servirebbe!

Nessuno si ricorderà di questa partita incompiuta, in un angolo sperduto di provincia, ma oggi ho imparato che l’autocritica deve migliorare noi stessi senza ingabbiarci in severe valutazioni, nel tennis come nella vita. Solo così i nostri talenti potranno divertirsi a trovare la loro piena espressione.

Sono ancora lì come uno stoccafisso a godermi tutte queste sensazioni incredibili e positive. Non le ho espresse a voce alta, ma Zeno mi conosce bene e le coglie al volo. Si avvicina, mi dà una pacca sulla spalla e mi dice: “Per essere sincero, a giocare ‘zen’ proprio non ti vedo, ma poco fa ho assistito a qualcosa che si avvicina. Brava!”.

Vada come vada, forse oggi non vincerò, ma ora ho ben chiaro come interpretare il mio gioco. L’autocritica ha capito quando deve fermarsi per non soffocare il divertimento.

Ci avviamo al nostro tie-break. Sarà ancora una lotta sofferta, ma con il sorriso sulle labbra, il sole nel cuore ed una mente solida a guidare il corpo.

Ora che ho rotto il ghiaccio, da qui in poi sarà tutto un altro tennis.

Sara Gagioli

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